giovedì 24 marzo 2016

Giornata dei martiri della fede


Giornata mondiale dei martiri della fede.
Chi di voi lo sapeva? Io no. L'ho saputo per caso. E, all'indomani degli attentati d Bruxelles, mi sono interrogata. Come al solito cercando una chiave.
La radice della parola martire in greco significa testimone. Testimone che non abiura la propria fede nonostante tutto. Quindi, ogni Cristiano vero e sincero, in quanto testimone è destinato ad essere martire. Non è che sia proprio una prospettiva incoraggiante, ma se ci pensiamo bene è così.
Nell'immaginario collettivo i martiri cristiani sono ormai acqua quasi passata, sbrindellati dai leoni nelle arene come siamo stati abituati a vedere nei vari film d'epoca. Ma non sono da meno, per quanto sono stati numerosi, i martiri di questo ultimo secolo. 
Sacerdoti uccisi per il loro impegno sociale, come Mons. Romero, di cui proprio oggi ricorre l'anniversario della morte, o i nostri don Diana e don Puglisi. Sacerdoti e monaci uccisi per odio alla fede, vittime a quanto ne sappiamo, di fondamentalisti, in condizioni ancora da appurare. 
Ricordiamo in Algeria i trappisti di Tibhirine, (1) la cui storia è stata resa nota dal meraviglioso film "Uomini di Dio" e Mons. Claverie, vescovo di Orano, ucciso pochi mesi dopo. 
Fare una lista completa non è possibile.. ci sono sacerdoti uccisi per semplici atti di violenza, per rapine, sacerdoti che hanno difeso da profanazione Ostie e Chiese a prezzo della loro vita. 
Ma non solo sacerdoti. Anche persone semplici. Famiglie perseguitate e uccise, come è successo in India, senza dimenticare la vicenda di Asia Bibi, ancora in prigione, e la difficile condizione dei Cristiani in Pakistan. 

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Ma, ovviamente non tutti i morti sono uguali. Perché, in fin dei conti, questi martiri sono scomodi. Scomodi perché ci ricordano che, nonostante Auschwitz e i numerosi genocidi quasi dimenticati (ci basti pensare al genocidio armeno), numerosi Cristiani vengono ancora uccisi oggi come per esempio in Siria e Nigeria. Una marea umana. Che viene a rompere la pia illusione che vada tutto bene e che l'umanità abbia fatto chissà quali conquiste sui diritti civili. 
Un silenzio assordante. Nessuno piange per loro. Nessuno si interroga più. Come se fosse una cosa normale. L'uomo di oggi si sta assuefacendo alle cose più abominevoli. Un po' perché ragioniamo alla "Tanto succede lontano da noi" " E' un paese da sempre in conflitto" " Mica possiamo piangere tutti i morti" " Tanto qui da noi c'è civiltà queste cose non succedono". E ci forniamo alibi ineccepibili. Forse nell'intento di tranquillizzarci e di esorcizzare la paura. 
Che strani tipi siamo. Ci battiamo tanto per l'uguaglianza dei sessi ma non consideriamo uguali tutti i morti. Da riflettere.
E inoltre, dovremo considerare che magari dietro alle decapitazione e alla strage dei Siriani Cristiani (2)  forse qualche piccola responsabilità potrebbe avercela la nostra "sicura" Europa.
Concludo ricordando le quattro suore di Madre Teresa, uccise in Yemen e Padre Tom ancora nelle mani dei rapitori.  E non dimentichiamoci nemmeno di padre dall' Oglio (3) di cui non si parla più. Nella speranza che vengano ricordati e sopratutto che venga fatto qualcosa di concreto per la loro liberazione, anche a livello internazionale. Forse la mia è una pia illusione, io la chiamo flebile speranza. Chi crede, può pregare. Chi non crede potrà interrogarsi su tutti questi fatti dei quali nessuno parla e prendere consapevolezza di una realtà che ci viene taciuta. 

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lunedì 21 marzo 2016

Prima di tutto persone. Riflessioni last minute sulla giornata internazionale sulla sindrome di Down.



Oggi giornata internazionale della sindrome di Down. Ma, facciamo un piccolo test: quanti tra di noi sanno esattamente chi ha scoperto l'origine della sindrome di Down? La domanda è solo apparentemente banale, in quando anche i sassi sanno che questa malattia è indissolubilmente legata al medico che per primo la descrisse, John Down, nel lontano 1866.
Down utilizzò il termine "mongoloide" per via della somiglianza nei tratti somatici con la razza mongola. Piccola curiosità: l'O.M.S. ha abbandonato questo termine nel 1965 su richiesta del suo delegato mongolo. 
Ma chi è stato a scoprire l'origine di questa malattia? Di certo non il Dott. Down, in quanto la conoscenza sui meccanismi genetici era ancora in una fase primordiale (ricordiamo, giusto per un ordine di grandezza temporale che Mendel espose i risultati dei suoi famosissimi lavori per a prima volta nel 1865). 
Quell'uomo con l'aria da nonno tenero circondato da quattro bimbi Down è il principale scienziato che non solo ha scoperto l'origine della sindrome di Down ma ha anche dedicato tutte le sue forze come scienziato, come uomo e come credente al servizio di questi malati. 
Eppure in pochi conoscono la sua storia. Io per prima, nonostante una laurea in biologia e due master sulla disabilità, non ho mai incontrato su libri e pubblicazioni il suo nome. Singolare coincidenza? Forse. Le cose sono due: o sono stata una studentessa molto distratta e superficiale, o quest'uomo deve aver subito una sorta di boicottaggio negli ambienti universitari e non solo. 
Ho conosciuto la storia di Jerome Lejeune quasi per caso, in una mostra fotografica a Cremona. Ricordo che rimasi a dir poco estasiata, sia per la sua vicenda scientifica che umana. Dal punto di vista puramente scientifico, un curriculum davanti al quale inchinarsi. Numerosissimi riconoscimenti e incarichi importanti sui quali non mi voglio dilungare ma chi vuole potrà approfondire (1) (2).
Un grandissimo scienziato, che non solo ha dato un contributo essenziale sulla sindrome di Down e la sindrome del grido del gatto, ma anche sulle anomalie cromosomiche indotte da radiazioni.
Uno scienziato boicottato per le sue posizioni bioetiche. Uno scienziato contro l'aborto, che usando esclusivamente argomentazioni mediche e scientifiche, e citando a memoria il giuramento di Ippocrate (400 anni prima di Cristo..) ha affrontato in televisione Emile Baulieu, l'inventore della RU 486, la pillola abortiva. Ma non mi voglio dilungare troppo, perché il tema di oggi sono le persone Down  ma credo proprio che nel futuro tornerò a parlare di Lejeune.
E' luogo comune che questi ragazzi, come tanti altri disabili, non abbiamo futuro. Quante volte mi sono sentita dire "non ti affannare, tanto non capisce" oppure "ma che potrà mai fare?". Tante volte mi sono trattenuta. Tante volte, invece,  mi sono interrogata  rischiando di rimanere invischiata da una mentalità distruttiva fin troppo diffusa e radicata. Ma per fortuna, la vita ti riporta alla speranza quando ti sforzi di guardarti intorno con un raggio un po' più ampio e magari usando chiavi diverse.
Ogni persona, se opportunamente stimolata e supportata può far fruttare le proprie capacità, dar luogo alle proprie aspirazione, realizzare i propri desideri. In una parola vivere.
Ci sono persone Down che ci sono riuscite. Ci sono persone Down felici.
Ne voglio citare qualcuna, perché il conoscere realtà positive e successi può essere di incoraggiamento per altri.
Giusi Spagnolo, Gianluca Spaziani e Francesco Aglio sono tre ragazzi Down che si sono laureati qui in Italia.
Ci sono ragazzi Down che riescono, ovviamente supportati da cooperative, ad intraprendere un'attività, come la locanda dei Girasoli qui a Roma.
Ci sono ragazzi Down che ballano e che fanno teatro.



Ci sono ragazzi Down che hanno inclinazione per la musica e per lo sport. Ci sono anche ragazzi "Down prodigio", come Emanuel Bishop, che parla 3 lingue, suona il violino e pratica nuoto e ciclismo. Ci sono ragazzi Down che riescono a dirigere orchestre, a vincere medaglie, insomma a vivere la loro vita.
Perché prima di essere malati, sono persone. Ed ognuna di esse, ha il proprio carattere, pregi e difetti, la propria inclinazione, il proprio sogno da rincorrere, la propria sfera affettivo-emotiva da affrontare, la propria sessualità da saper gestire. Come ogni persona che vive una vita dignitosa.



Una ragazza Down per me veramente speciale, è Cristina Acquistapace, che ha deciso di donarsi a Dio e di mettere a frutto i suoi talenti per gli altri. Con una semplicità estrema, parla della sua condizione e della sua scelta con una coerenza disarmante. Parla dell'amore, della sofferenza con una lucidità e una profondità senza pari . Una capacità di analisi fuori dal comune.
Consiglio a tutti di guardare l'intervista integrale (4) che ha rilasciato a TV2000, raccontando la sua vocazione e il suo percorso di vita.  Per me un insegnamento. Concludo con una sua frase:

" Prima di amare qualcuno, amate voi stessi"

Per chi volesse approfondire ...

(1) notizie su Jerome Leujeune 

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sabato 19 marzo 2016

Festa del papà. Riflessioni last minute.














                 




Festa del papà. Un giorno impegnativo, che si presta a numerose riflessioni.
Già da qualche giorno circolano nei vari social le polemiche sui lavoretti dei bimbi a scuola. Notizie bomba, confermate e smentite, di abolizioni della festa del papà per non discriminare i bimbi che vivono in un contesto omogenitoriale. 
Inizio ad essere logora di polemiche che non portano a nulla. Con un minimo di buon senso si possono veramente risparmiare energie vitali e sofferenze inutili. Usare un pochino di sano buon senso potrebbe essere una soluzione. Consideriamo le situazioni omogenitoriali con due donne (questo il problema di oggi) il cui il figlio/a di una delle due vive con mamma e compagna. Nessun papà presente. 
Spero per questi bimbi che nel loro ambiente di vita, possano tuttavia conoscere un portatore Y al quale dedicare un pensiero, un disegno, un lavoretto. Un nonno, un fratello un cugino, un amico di famiglia che possa fare da punto di riferimento. Oppure devo pensare che i bimbi in questione vivano in un ambiente dove gli uomini sono banditi, in un clima di "maschiofobia" dove si vuole epurare l'ambiente dalla componente maschile? Spero di no per loro. Perché non sarebbe una cosa né ragionevole né equilibrata, e non sarebbe un bene per i bimbi. Già ho fortissimi dubbi che vivere in un contesto omogenitoriale sia un bene per loro. Figuriamoci in un contesto strettamente femminile senza neanche una figura maschile.
Volenti o nolenti gli uomini ci sono su questa terra. Sulle querelle della festa del papà una soluzione ragionevole si può trovare, senza discriminare e penalizzare nessuno, neanche chi vuole festeggiare il proprio papà.
Tra i vari post incontrati, uno affermava il fatto che famiglie omogenitoriali non si sono mai sognate di chiedere alla scuola di eliminare le iniziative per la festa del papà ma che questa era una decisione autonoma della scuola e delle maestre. Peggio mi sento. Stile Renzi, che per compiacere il presidente Iraniano Rohani, copre le nudità delle statue dei musei Capitolini. Questo atteggiamento di "prevenzione di potenziali disagi e/o discriminazioni" mi sembra immaturo, strumentale e misero, perché non fa altro che buttare benzina sul fuoco ed esasperare gli animi di tutti. Passiamo oltre. 
Alla base del disagio per questa festa, ci sono tante altre realtà. Facciamo lo sforzo di uscire dalla nostra bolla e guardarci intorno. Ci sono realtà dolorose di bimbi senza il loro papà, papà che hanno abbandonato i loro figli e la famiglia per vari motivi (un'altra donna, un altro uomo, la disabilità del figlio stesso, ecc.). Ci sono papà morti improvvisamente, dopo una lunga malattia, o in situazioni ancora da chiarire. Ci sono papà talmente immaturi, ancora nella fase adolescenziale, che hanno devastato psicologicamente figli e compagne. E allora questa festa può essere un macigno immane. Ma forse è possibile cambiare chiave e cercare di affrontare la realtà vivendo questa festa come occasione. Occasione per ricordare le cose belle che hanno lasciato i papà che sono in cielo. La loro eredità, i loro insegnamenti positivi, come semi che dobbiamo far fiorire. 
Occasione per fare il punto sul rapporto, magari difficile e conflittuale che abbiamo avuto con loro. Nella consapevolezza che un papà è una persona umana e le persone non ti possono dare quello che non hanno. Non per cattiveria, ma semplicemente perché non ce l'hanno. Cercare di rielaborare in chiave positiva il proprio rapporto con il papà credo che sia una componente fondamentale della propria crescita. Magari uno poi non ci riesce, ma il fatto di averci provato libera mente e cuore. Occorrono però, tempo, energia, volontà, aiuto. Ho conosciuto donne eccezionali, devastate dai mariti che per il bene dei loro figli, invece di metterli contro i padri sono riuscite ad aiutare i propri figli a costruire rapporti tutto sommato sani con il proprio padre. Succede anche questo, grazie al cielo.
Foto Nino Jesus Orbeta/Philippine Daily Inquirer














Poi ci sono papà davanti ai quali io mi inchino. Papà che sacrificano tutto per i loro figli. Papà che come san Giuseppe, che si prendono cura della loro famiglia in tutto, papà che scappano da guerre e calamità per salvare la vita dei propri figli e che si tolgono il pane di bocca per nutrirli. Papà innamorati dei loro figli disabili che fanno tutto per loro. Papà che combattono ogni giorno per la propria famiglia spaccando il centesimo per arrivare a fine mese. Papà vedovi che cercano di colmare con tutto l'affetto un vuoto inestinguibile. 
Papà non aiutati da nessuno. Nell'eroismo quotidiano.
A tutti i papà va il mio augurio. Augurio di poter aver la consapevolezza del proprio ruolo insostituibile e di poter provvedere a tutti i bisogni (leciti) dei propri figli, materiali, spirituali e affettivi. Auguro di poter sostenere la corsa dei propri figli nelle difficoltà della vita, come questi due papà speciali. Buona visione








venerdì 18 marzo 2016

Chi sono Io


Mi presento. Il mio primo nome è Hayat. In arabo significa Vita. Pochi eletti mi chiamano con il mio primo nome. Per gli altri sono Francesca. Sui documenti sono Hayat Francesca Palumbo.
Ho vissuto in Algeria fino agli otto anni, in un clima di semplicità (obbligata), spensieratezza e incontri speciali che sono stati fondamenta della mia vita. 
Da piccola volevo fare la scrittrice. Volevo fare anche la paleontologa. Non avevo minimamente idea di cosa fosse ma amavo il suono ridondante di questa parola. In seguito ero convinta che avrei fatto l'antropologa, forse anticipando il grande amore che, nonostante tutto, nutro ancora per il genere umano e le sue radici. 
Ho compiuto studi scientifici presso la scuola francese immersa in un ambiente multilinguistico e multiculturale.
E non potevo fare altro che la facoltà di biologia seguendo la traccia "nomen omen".
La mia laurea è una delle poche cose di cui vado veramente fiera anche perché l'anno prima della tesi volevo mollare tutto. Le cose migliori della mia vita hanno questo leitmotiv.
Dopo la laurea sono riuscita ad entrare nella famigerata Ssis per poter conseguire l'abilitazione all'insegnamento. Il mio obiettivo di allora? Instillare alle nuove generazioni l'amore per la vita usando il cavallo di Troia della biologia. 
Così era stato per me durante i miei studi universitari. Sfido chiunque a studiare un libro di istologia o citologia senza commuoversi per la perfezione del microcosmo di cui siamo fatti. Lo scontro con la realtà è stato impegnativo. Ma oltre a far volare i banchi e minacciare i professori, ho sempre pensato che i ragazzi siano capaci di grandi cose...basta trovare la giusta strategia per  tirarle fuori.  Per una scommessa con una mia cara amica sono riuscita a entrare nel corso di specializzazione per il sostegno. Ancora ricordo il dialogo scanzonato in un clima  di allegra pseudo-competizione con il qule decidemmo di fare domanda: "A Francè, c'è questo bando per titoli...Scommettiamo che ci rientriamo? " " A Stefà... Chettedevodì...Famolo... Vediamo chi si colloca più in alto...". Rientrate tutte e due. Ovviamente tra i primi posti. E si è aperto un mondo a me sconosciuto. Il mondo del sostegno scolastico. Un mondo difficile, contraddittorio, conflittuale. Un mondo dove se non sei più che equilibrata rischi di spezzarti sotto il peso della sofferenza inevitabile che ti circonda e l'indifferenza ottusa di colleghi che non riescono proprio ad affrontare la realtà umana dell'handicap. E ti prosciughi senza accorgertene, facendo la fine della rana bollita. Ma nonostante tutto è il mestiere più bello. Finché reggo spero di farlo il meno peggio possibile. Oltre il lavoro cerco di tener su la mia famigliola. Ho una famiglia essenziale. Io e il mio sposo. Sposati da quasi 7 anni, abbiamo avuto un inizio traumatico e un proseguimento ancor più conflittuale. Ma ci siamo ancora. Allegramente e tenacemente. Non solo per amore ma anche, detta alla romana "pe' tigna", con la fiera determinazione di due segni con le corna. Un toro e un ariete non possono far altro che scornarsi. Ma in quanto a determinazione mio marito non ha pari. Dario è un mostro di tenacia e testardaggine, oltre che essere un giocatore di scacchi. Mi ha conquistata così, con un gioco strategico durato anni tra i miei proclami di non luogo a procedere e i suoi di perseveranza a prescindere. Siamo due teste particolari piene di contraddizioni, limiti e difetti. Ma la cosa che ci unisce è la buona volontà nel migliorare.
Contrariamente alla Cirinnà (consentitemi la battuta), noi non abbiamo figli non umani.
Non riusciamo proprio a fare nostra la compensazione affettiva di cani, gatti e similari. L'amore che ti può dare un essere umano è insostituibile e non ci sono surrogati che tengano. Dario con estrema autoironia dice, sempre scherzando, che in casa abbiamo già il nostro zoo, tutto concentrato in una persona: lui! A volte orso, a volte scimmione, a volte cinghiale, a volte ippopotamo (soprattutto quando si lava in bagno). Ci divertiamo con poco: nomignoli e battute scherzose. Frequentiamo persone rigorosamente umane e la nostra casa è frequentata da amici, famiglie, bimbi e anziani, ricordando le radici della mia famiglia di origine, numerosissima. Non c'è vita senza relazione, comunicazione e condivisione. E noi siamo sempre pronti ad aprirci. Ma a una sola condizione ferrea: che ci sia sempre in massimo rispetto nei rapporti senza ingerenze affettive o prosciugamenti emotivi. Una delle nostre sfide più importanti: costruire rapporti equilibrati e costruttivi, nei quali si possano condividere e comunicare chiavi che portano alla crescita e alla scoperta della bellezza della vita. Il resto lo scoprirete strada facendo.

Foto con maglietta "Who am I" gentilmente concessa dallo studio fotografico "Nuvola Bionda".

martedì 15 marzo 2016

Un nuovo blog. Iniziamo dal titolo.




Chiavi di Vita. Un nuovo blog. Il mio nuovo blog. Ma non ci sono sono abbastanza blog in questo mare di esternazioni della propria intimità che viene sempre più esposta al pubblico giudizio?
Ma il mio intento non è questo. Il mio intento è quello di partire da elementi chiave della mia vita. 
Chiavi che per me ma hanno aperto porte e che possono continuare a farlo.
Chiavi per capire, per vedere oltre.
Chiavi per ragionare, riflettere, pensare, elaborare e sviluppare un personale pensiero critico in un ambiente in cui il ragionamento è sempre più fagocitato da un pensiero piatto e omogeneo. In tutto. Ma se riusciamo ad aprire un varco, poi tutto viene da sé e si riesce ad arrivare verso mete inimmaginabili.
Noi siamo chiave. 
La nostra vita è chiave. Come una collana di perle. Ogni perla ci porta a quella successiva. Intanto apriamo la prima porta. 
Quante sono le chiavi che incontriamo nella vita? 
Le chiavi, come gli esami, non finiscono mai. Sta a noi cercarle, o meglio, accoglierle quando ci vengono incontro.
Ognuno di noi ha dei domini preferiti nella vita nei quali trae le proprie chiavi. C'è chi incontra le proprie chiavi esclusivamente nel dominio della ragione, chi in quello della religione, chi in quello del lavoro o in quello della famiglia.
Io non riesco a limitarmi in uno o qualche dominio. Ho bisogno di spaziare, di guardare e andare oltre. Per me, tutto è chiave. Ogni cosa può essere inizio di una nuova realtà, ogni cosa può essere chiave per una porta che si apre.
Ho trovato chiavi nell'amore, nella famiglia, nel lavoro, nei rapporti interpersonali conflittuali, nei giochi, nei dolori, nella sofferenza.
Ho trovato chiavi nella musica, nell'arte, nella creatività. Ho trovato chiavi nello studio delle scienze, delle lingue, della storia, con i suoi personaggi più o meno noti. 
Ho trovato chiavi in una parola rimasta scolpita nel cuore, in uno sguardo che trapassa l'intimo, nel verso di una poesia, tra le righe di un libro o davanti un'immagine. 
Ho trovato chiavi nei ricordi, nelle novità, nelle realtà di ogni giorno, nell'attualità, nel cammino di questo mondo nel quale, volenti o nolenti, viviamo.
Infinite chiavi per infinite porte proprio per la natura ipersfaccettata e iperversatile di questo miracolo chiamato Uomo. 
Tutto nella vita può essere chiave. Per chi sa vedere e per chi vuole vedere, è possibile entrare in un circolo virtuoso di porte che si aprono su altri orizzonti in un crescendo esponenziale di amore per la vita.
Perché questo blog? Essenzialmente per condividere e comunicare. Perché magari qualche chiave di Vita (Hayat il mio nome significa Vita) può aiutare ad aprire anche qualche porticina nel cuore e nella mente di qualcun altro. E non c'è cosa più bella di una nuova porta che si apre.

martedì 1 marzo 2016

To be or not to be?





Settimana Santa assai impegnativa quella del 2016. Inizio settimana santa con gli attentati a Bruxelles.
Segue esplosione in uno stadio ad Iskanderyiah in Iraq. Strage di giovani tra 12 e 16 anni. Chiudiamo in bellezza con l'attentato a Lahore la domenica di risurrezione. Strage di donne e bambine. Famiglie prevalentemente Cristiane.
Come non farsi due domande in questi giorni? Magari domandine un pochino più profonde e concrete di quelle sull'opportunità o meno di portare l'agnello a tavola il giorno di Pasqua. Perché a volte l'animo umano è veramente un mistero. Si indigna e si intenerisce per un agnellino battendosi per i suoi diritti, riempendo i programmi televisivi di dibattiti sul tema, ma sembra aver fatto l'abitudine alle stragi di ragazzi. Ma andiamo con ordine.
Già dai tempi degli attentati di Gennaio 2015 mi sono interrogata sul significato del tormentone "Je suis Charlie", che dopo qualche mese è diventato " Je suis Paris" e il "Je suis Bruxellois" del Segretario di Stato Americano Kerry in Belgio dopo gli attentati. 
E riecheggia nella mia testa il dubbio amletico: essere o non essere? Quale il senso di questa forma popolare di espressione di condanna di questi atti terroristici? Siamo consapevoli e convinti  di quello che veramente affermiamo sui nostri social o magari è solo frutto di un'ondata emotiva che è destinata a spegnersi altrettanto velocemente di come è sorta senza portare a nulla? Queste le porte da aprire davanti alle quali mi sono trovata davanti in questi giorni. Una miscellanea di pensieri che covavo dentro dai tempi dell'attacco terroristico al giornale "Charlie" e dall'invasione mediatica del leitmotiv "Je suis Charlie", e che vedrò di porzionare nei prossimi giorni per non disperdermi e non appesantire chi legge.
Credo che il verbo "essere" sia stato fortemente depauperato del proprio significato. Per me, il verbo essere ha un forte e profondo significato di radicata identità, di forte consapevolezza e conoscenza di quello che diciamo di essere. Lo percepisco come un verbo "sacro" che mi rimanda all' "io sono" di Dio. Insomma, un verbo da non usare alla leggera. Nella lingua araba esiste il verbo "non essere". Questa cosa mi ha sempre affascinato. E ho iniziato a pensare che magari per capire ciò che noi siamo, possiamo interrogarci su cosa non siamo o cosa scegliamo di non essere. Inizio questa piccola riflessione.
Io non sono Charlie. Non mi rappresenta. Un giornale satirico che offende i miei valori non può rappresentarmi. Ma ciò non vuol dire tout court che io sia d'accordo con i fondamentalisti che hanno assaltato la sede di Charlie. Assolutamente no, ma c'è bisogno essere coerenti con se stessi e sopratutto con le vittime. Che non sono stati solo direttore, vignettisti e chi lavorava al giornale. ma anche due poliziotti e l'addetto alla portineria. Ricordiamocelo. E ricordiamo che erano prima di tutto persone, con le loro idee, condivisibili o meno, le loro vite, le loro famiglie e le loro scelte. Persone. E mettere la targhettina collettiva "Charlie" su queste vittime mi sembra paradossalmente uno sminuire la loro dignità. 
Io non sono Brussellese. Se c'è un paese che proprio non mi rappresenta è il Belgio. Per via della sua mentalità di svalorizzazione della vita umana. Ma ovviamente condanno gli attentati di inizio settimana. Posso dire però " Io sono Hayat che prende regolarmente la metro per andare a Termini col rischio di saltare in aria come è successo a  Maelbeck". Infatti, prendendo la metro, ho pensato a loro. Lavoratori, studenti, persone che come ogni mattina hanno preso la metro ma non sono tornati a casa. Persone, prima di essere Brussellesi.
Confesso. Mi sento più rappresenta dalle vittime civili Siriane e dalle vittime di Lahore. Per vari motivi. Il primo è il Credo. Non giova a nulla fare gli struzzi. Si sta consumando un genocidio Cristiano. Le vittime di Lahore erano famiglie che sono andate in un parco a trascorrere una giornata di festa. Cosa che faccio regolarmente anche io nelle belle giornate, la domenica con le famiglie di amici nei parchi o nel nostro bellissimo santuario del Divino Amore immerso nel verde e gremito di bambini e famiglie nei giorni di bella stagione. Ovviamente, per la maggior parte degli Europei è assai difficile dire e postare frasi come "Je suis Syrien" " Je suis Lahore" o "Je suis Iskanderyiah" . Riconoscersi nei profughi Siriani, e non solo, tutti sporchi con vestiti lisi e laceri, non è che sia proprio automatico. Culturalmente ci sentiamo più rappresentati da chi ha il nostro stile di vita. Più facile immaginarci in un locale stile Bataclan ad ascoltare musica, come magari facciamo abitualmente, che nel campo profughi di Idumeni, in Grecia, ricoperti di cenci alla ricerca di un tozzo di pane, dentro una tenda di fortuna, tra continue tensioni e difficoltà. E' plausibile, ma dobbiamo riconoscere che serve avere una visione un pelino più ampia. Perché non è solo il tempo di gessetti e mazzi di fiori ma è il tempo della concretezza e del ragionamento. Perché mentre per i morti non possiamo più fare nulla, se non pregare per loro o ricordarli, per i vivi si può fare molto. E' ora di scegliere se seguire la via di un maggiore impegno, guidato da consapevolezza e riflessione o semplicemente continuare con la filosofia dello struzzo: tenere la testa sotto la sabbia che tanto, come ci assicurano i nostri beneamati politici, qui da noi non c'è nessun pericolo. Fino a quando qualcuno non dirà "Je suis Italien"... Ma a quel punto sarà troppo tardi.