martedì 1 marzo 2016

To be or not to be?





Settimana Santa assai impegnativa quella del 2016. Inizio settimana santa con gli attentati a Bruxelles.
Segue esplosione in uno stadio ad Iskanderyiah in Iraq. Strage di giovani tra 12 e 16 anni. Chiudiamo in bellezza con l'attentato a Lahore la domenica di risurrezione. Strage di donne e bambine. Famiglie prevalentemente Cristiane.
Come non farsi due domande in questi giorni? Magari domandine un pochino più profonde e concrete di quelle sull'opportunità o meno di portare l'agnello a tavola il giorno di Pasqua. Perché a volte l'animo umano è veramente un mistero. Si indigna e si intenerisce per un agnellino battendosi per i suoi diritti, riempendo i programmi televisivi di dibattiti sul tema, ma sembra aver fatto l'abitudine alle stragi di ragazzi. Ma andiamo con ordine.
Già dai tempi degli attentati di Gennaio 2015 mi sono interrogata sul significato del tormentone "Je suis Charlie", che dopo qualche mese è diventato " Je suis Paris" e il "Je suis Bruxellois" del Segretario di Stato Americano Kerry in Belgio dopo gli attentati. 
E riecheggia nella mia testa il dubbio amletico: essere o non essere? Quale il senso di questa forma popolare di espressione di condanna di questi atti terroristici? Siamo consapevoli e convinti  di quello che veramente affermiamo sui nostri social o magari è solo frutto di un'ondata emotiva che è destinata a spegnersi altrettanto velocemente di come è sorta senza portare a nulla? Queste le porte da aprire davanti alle quali mi sono trovata davanti in questi giorni. Una miscellanea di pensieri che covavo dentro dai tempi dell'attacco terroristico al giornale "Charlie" e dall'invasione mediatica del leitmotiv "Je suis Charlie", e che vedrò di porzionare nei prossimi giorni per non disperdermi e non appesantire chi legge.
Credo che il verbo "essere" sia stato fortemente depauperato del proprio significato. Per me, il verbo essere ha un forte e profondo significato di radicata identità, di forte consapevolezza e conoscenza di quello che diciamo di essere. Lo percepisco come un verbo "sacro" che mi rimanda all' "io sono" di Dio. Insomma, un verbo da non usare alla leggera. Nella lingua araba esiste il verbo "non essere". Questa cosa mi ha sempre affascinato. E ho iniziato a pensare che magari per capire ciò che noi siamo, possiamo interrogarci su cosa non siamo o cosa scegliamo di non essere. Inizio questa piccola riflessione.
Io non sono Charlie. Non mi rappresenta. Un giornale satirico che offende i miei valori non può rappresentarmi. Ma ciò non vuol dire tout court che io sia d'accordo con i fondamentalisti che hanno assaltato la sede di Charlie. Assolutamente no, ma c'è bisogno essere coerenti con se stessi e sopratutto con le vittime. Che non sono stati solo direttore, vignettisti e chi lavorava al giornale. ma anche due poliziotti e l'addetto alla portineria. Ricordiamocelo. E ricordiamo che erano prima di tutto persone, con le loro idee, condivisibili o meno, le loro vite, le loro famiglie e le loro scelte. Persone. E mettere la targhettina collettiva "Charlie" su queste vittime mi sembra paradossalmente uno sminuire la loro dignità. 
Io non sono Brussellese. Se c'è un paese che proprio non mi rappresenta è il Belgio. Per via della sua mentalità di svalorizzazione della vita umana. Ma ovviamente condanno gli attentati di inizio settimana. Posso dire però " Io sono Hayat che prende regolarmente la metro per andare a Termini col rischio di saltare in aria come è successo a  Maelbeck". Infatti, prendendo la metro, ho pensato a loro. Lavoratori, studenti, persone che come ogni mattina hanno preso la metro ma non sono tornati a casa. Persone, prima di essere Brussellesi.
Confesso. Mi sento più rappresenta dalle vittime civili Siriane e dalle vittime di Lahore. Per vari motivi. Il primo è il Credo. Non giova a nulla fare gli struzzi. Si sta consumando un genocidio Cristiano. Le vittime di Lahore erano famiglie che sono andate in un parco a trascorrere una giornata di festa. Cosa che faccio regolarmente anche io nelle belle giornate, la domenica con le famiglie di amici nei parchi o nel nostro bellissimo santuario del Divino Amore immerso nel verde e gremito di bambini e famiglie nei giorni di bella stagione. Ovviamente, per la maggior parte degli Europei è assai difficile dire e postare frasi come "Je suis Syrien" " Je suis Lahore" o "Je suis Iskanderyiah" . Riconoscersi nei profughi Siriani, e non solo, tutti sporchi con vestiti lisi e laceri, non è che sia proprio automatico. Culturalmente ci sentiamo più rappresentati da chi ha il nostro stile di vita. Più facile immaginarci in un locale stile Bataclan ad ascoltare musica, come magari facciamo abitualmente, che nel campo profughi di Idumeni, in Grecia, ricoperti di cenci alla ricerca di un tozzo di pane, dentro una tenda di fortuna, tra continue tensioni e difficoltà. E' plausibile, ma dobbiamo riconoscere che serve avere una visione un pelino più ampia. Perché non è solo il tempo di gessetti e mazzi di fiori ma è il tempo della concretezza e del ragionamento. Perché mentre per i morti non possiamo più fare nulla, se non pregare per loro o ricordarli, per i vivi si può fare molto. E' ora di scegliere se seguire la via di un maggiore impegno, guidato da consapevolezza e riflessione o semplicemente continuare con la filosofia dello struzzo: tenere la testa sotto la sabbia che tanto, come ci assicurano i nostri beneamati politici, qui da noi non c'è nessun pericolo. Fino a quando qualcuno non dirà "Je suis Italien"... Ma a quel punto sarà troppo tardi.


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